Si inaugura nel presente numero una serie di interviste in cui i membri dell’Istituto raccontano il loro modo di vivere le rispettive competenze.
Intervista a Natale Rampazzo, primo ricercatore CNR-IRISS.
Il mio approccio al mondo della ricerca è stato indiretto. Dai banchi (non a rotelle) dell’Università cominciavo a sviluppare un interesse per la comunicazione del sapere, da vittima della fascinazione della carriera accademica. Laureatomi e intrapresa la carriera accademica mi accorsi da subito che la comunicazione aveva bisogno di contenuti, di un sapere costruito attraverso la ricerca, appunto. Ricordo con emozione il passaggio dalla fase di trasmissione di conoscenze acquisite a quella di espressione di idee create. Il passaggio all’età adulta si potrebbe definire, che comincia con le prime pubblicazioni scientifiche. E con le borse di studio e i soggiorni all’estero e l’apertura a sistemi diversi, a sensibilità differenti, a modi di lavorare peculiari.
La dimensione del viaggio è quella che secondo me meglio identifica il proprium della ricerca. L’entusiasmo per l’inizio di un itinerario e la scoperta di nuove mete, la curiosità, fondamentale in ogni viaggio, di conoscere e l’apertura verso cambi di rotta, che rendono il percorso talvolta più interessante. E soprattutto il riconoscimento del ruolo del caso. Che per un giurista ha una duplice accezione: quella generica, di evento imprevisto, e quella specifica, di questione giuridica, che dimostrano un’interrelazione nascosta: lo studio dei casi può prevenire l’imprevedibilità del caso.
Eppure per caso, anche se orientato da un interesse, mi sono avvicinato a uno dei miei ultimi filoni di ricerca, in cui mi è capitato di unire le prospettive del sapere e del piacere, o meglio del sapore. Un viaggio, ancora una volta, a Milano nel 2015, durante l’Expo (Nutrire il pianeta, energia per la vita) dedicato al cibo alla base dell’alimentazione e della nutrizione, alla sostenibilità ambientale, alla resilienza sociale, al territorio come fonte di produzione e oggetto di tutela. Al settore agroalimentare come fattore culturale. Di lì l’intensificarsi dei rapporti con altri ricercatori e operatori del settore (del ‘networking’, si dice) e lunghe permanenze all’estero, volte a gettare le basi di collaborazioni durature. Perché, per quanto la ricerca esiga e imponga momenti di solitudine per concentrarsi meglio e organizzare le idee, nessuno può lavorare efficacemente come una monade, isolata dal contesto e senza contaminazioni disciplinari. E dunque da studioso del diritto dell’innovazione, ho cominciato a misurarmi, quasi per caso, con lo studio di casi relativi alle indicazioni di origine dei prodotti del territorio, alle IGP e alle DOP, alla loro tracciabilità, alla prevenzione della contraffazione, all’impatto della normativa sul tessuto economico e sulle imprese che operano nel settore del ‘food and wine’, una forma di arte edibile strettamente connessa con il dna culturale di un territorio.
Il periodo di distanziamento forzato e di limiti alla circolazione comprime una delle componenti ‘sociali’ del lavoro (peraltro in parte compensabile con l’uso delle tecnologie), ma non esclude quella della riflessione, anima vera della creazione. Un momento di sospensione che prelude ad un’ulteriore futura espansione dei confini mentali, nel viaggio interminabile della ricerca.
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