Sul lavoro a distanza tra agilità e sostenibilità (I parte).
Il lavoro agile, più noto come smart working è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e da un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa (art. 18 della legge 22 maggio 2017, n. 81).
Una modalità, caratterizzata dalla flessibilità operativa e dalla facoltà di accedervi (divenuta obbligo in taluni recenti casi), che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. Non può essere identificato con il telelavoro, connotato invece da una maggiore rigidità spaziale (una postazione fissa in luogo diverso da quello del datore di lavoro) e temporale (gli orari coincidono con quelli del personale impiegato in mansioni analoghe). Il presupposto del lavoro agile è dunque generalmente costituito da una dotazione tecnologica che consenta l’accesso a sistemi digitali interconnessi. È una pratica, limitata però a determinate tipologie di attività, che riscontra un discreto successo, evidenziando che si può fare lo stesso (o forse meglio) con una completa autodeterminazione dell’impegno lavorativo in vista di un obiettivo che deve però essere chiaramente identificato. La libertà nella gestione del tempo può diventare però ben presto una chimera nei casi in cui la disponibilità all’interazione con altri colleghi si estenda al di là del tradizionale orario, proprio in forza dell’assenza di vincoli pertinenti.
Il dato interessante al riguardo è che, in un’era già definita post-digitale in un report di Accenture del 2019 e in una società che è diventata, a nostra insaputa, 5.0 (almeno nelle teorizzazioni del governo giapponese nel 2015, pubblicizzate in occasione del CeBIT 2017 di Hannover) a misura della prossima Industria 5.0, la connessione virtuale occuperà uno spazio crescente nelle nostre abitudini di vita (con o senza pandemie). Dei pericoli che si annidano in questo esito difficilmente reversibile è ben consapevole, da tempo, la psicologia che parla a tal proposito di tecnostress, secondo la formulazione di Craig Brod: «a modern disease of adaptation caused by an inability to cope with the new computer technologies in a healthy manner. It manifests itself in two distinct but related ways: in the struggle to accept computer technology, and in the more specialized form of over-identification with computer technology» (Technostress: the human cost of computer revolution (1984, Addison Wesley). Le più recenti elaborazioni delle scienze psicologiche hanno ampliato la definizione di questa latente e generalizzata sindrome da sovraesposizione digitale, acutizzata dall’avvento dei social networks, formidabili strumenti di condivisione e comunicazione e, proprio per questa ragione, di radicate dipendenze. Si è dunque codificata, già nel 2011, una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio, compulsivo, di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone, e dalla paura di essere esclusi da eventi, esperienze, o contesti sociali gratificanti; è una dipendenza da dispositivi di connessione, denominata FOMO (Fear Of Missing Out), che, sebbene sia diffusa in diverse forme presso la cd. Generazione Z (i nati dal 1996) o la Generazione Alfa (i nati dal 2010), rischia di attecchire anche presso un pubblico più ampio.
Da ultimo, il 21 gennaio 2021, il Parlamento europeo ha manifestato attenzione al problema, adottando una risoluzione recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione. Sulla scorta di una serie di report e best practices aventi ad oggetto proprio la ‘connessione digitale’ di natura professionale (e non ricreativa, ludica o socializzante), originati dalla proposta di legge avanzata dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali (rapporteur: Alex Agius Saliba), sono emerse considerazioni fondamentali sul rapporto tra lavoro e uso delle tecnologie digitali. Viene osservato ad esempio, a fronte degli indubbi e constatabili benefici economici del ricorso a modalità di lavoro a distanza, che “un utilizzo sempre maggiore degli strumenti digitali a scopi lavorativi ha comportato la nascita di una cultura del ‘sempre connesso’, ‘sempre online’ o ‘costantemente di guardia’ che può andare a scapito dei diritti fondamentali dei lavoratori e di condizioni di lavoro eque, tra cui una retribuzione equa, la limitazione dell’orario di lavoro e l’equilibrio tra attività lavorativa e vita privata, la salute fisica e mentale, la sicurezza sul lavoro e il benessere” (considerando C); si sottolinea infatti, da un lato, che un uso prolungato o intenso può determinare una riduzione della concentrazione e un sovraccarico cognitivo ed emotivo e aggravare “fenomeni quali l’isolamento, la dipendenza dalle tecnologie, la privazione del sonno, l’esaurimento emotivo, l’ansia e il burnout” e, dall’altro, che il diritto alla disconnessione è un diritto fondamentale che costituisce una parte inseparabile dei nuovi modelli di lavoro della nuova era digitale (considerando da D a H). Tuttavia, quest’ultimo diritto non trova un’uniforme disciplina normativa negli Stati membri (in Francia ha trovato ingresso nell’articolo L. 2242-8 del Code du travail tramite una riforma del 2016; in Italia c’è un disegno di legge ), né esiste uno strumento unionale di armonizzazione. Il Parlamento rivolge quindi alla Commissione europea l’invito a presentare un quadro legislativo al fine di stabilire requisiti minimi sul lavoro a distanza in tutta l’Unione che si ispiri all’idea di accordare ai lavoratori la «sovranità sul tempo» nel rispetto di una pratica di autogestione, nonché all’esigenza della prevedibilità dell’orario di lavoro e della prevenzione di un uso disumanizzato o pervasivo degli strumenti digitali all’interno di una prospettiva strategica orientata da un lato al miglioramento delle competenze informatiche, tramite idonei percorsi formativi, e dall’altro alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, attraverso l’adozione di nuove misure e azioni psicosociali. Nonostante l’emergere e l’affermarsi della descritta modalità di lavoro, sembra che la trasposizione della direttiva europea negli ordinamenti nazionali non costituisca una priorità: all’articolo 11 della proposta è prevista l’adozione della normativa di attuazione da parte degli Stati membri entro due anni (e la sua applicazione non prima di tre anni) dall’entrata in vigore della direttiva.
In attesa del bilanciamento degli interessi che sarà operato a livello legislativo possiamo cominciare a rendere il nostro working se non smart quanto meno sustainable.
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